dindùn
Recensioni:
Alessandro Nobis
www.folkbulletin.com
Sarà felice il buon Costantino Nigra di sapere che a più di un secolo dalla prima edizione del suo fondamentale “Canti popolari del Piemonte” – e parliamo del 1888 – c’è ancora chi ne studia a fondo i testi e li confronta con quanto di essi ancora sopravvive nella tradizione popolare dei nostri giorni aggiungendovi melodie raccolte sul campo o studiate in altre pubblicazioni. E sarà ancora più contento scoprendo quanto sia stato portato avanti questo prezioso lavoro di studio e di rielaborazione dagli autori di questo – a mio avviso – bellissimo e coraggioso “Majin”, ovvero la Alessandra Patrucco (voce), Marc Egea (ghironda e flauti) ed il pianista Angelo Conto: musicisti sì con profondo interesse nella cultura popolare, ma con frequentazioni anche in quelle contemporanea, oltre che nei mondi paralleli a quello musicali come quelli della danza o della poesia.
Insomma, considero questo disco una piacevolissima sorpresa che mi ha, ascolto dopo ascolto, rivelato da un lato la ricchezza del patrimonio che le generazioni passate ci hanno consegnato, e dall’altro l’originalità – e consentitemi – anche la genialità della proposta. De-banalizzare una melodia come “Il mio castello” e regalarle un respiro ampio e colto non è una cosa facile, soprattutto non è da tutti: il brano si apre con l’esposizione dell’arciconosciuta melodia ma di seguito voce, pianoforte e ghironda volano in un’altra direzione, verso orizzonti sorprendentemente attuali, costruendo un ponte che da una parte collega il passato e dall’altra fa solo immaginare la riva opposta.
Concludo citando altri due brani che mi hanno particolarmente impressionato – facendo torto però a tutti gli altri: “La soca” e “La bionda di Voghera”  arrangiamenti quasi “minimalisti”, altre due perle di questo intelligente disco di esordio del trio Dindùn, gruppo che merita l’attenzione di quanti rivolgono le loro attenzioni alle musiche definite “di confine”.
Salvatore Esposito
www.blogfoolk.com
Il trio DinDùn nasce dalla prosecuzione della collaborazione tra la compositrice Alessandra Patrucco, e il pianista dei Cantovivo, Angelo Conto, i quali dopo aver collaborato per il pregevole “Varda La Luna” con il progetto Sasà, hanno unito le forze con il musicista e compositore spagnolo Marc Egea (ghironda e flauti), dando vita ad un progetto musicale teso a riproporre materiali della cultura orale piemontese, il tutto cercando un equilibrio tra sonorità contemporanee e tradizionali, che in qualche modo esaltassero al purezza e il fascino delle voci antiche. Dopo aver debuttato alla XVIII Edizione del Festival Internazionale Europa Cantat del 2012, i Dindùn hanno via via ampliato il loro repertorio arricchendo le loro ricerche con lo studio delle raccolte dei canti tradizionali pubblicate da Costantino Nigra, Leone Sinigaglia, e dell'alessandrino Franco Castelli. Ha preso corpo così l’idea di un disco che è diventata ben presto realtà, tra il maggio e il giugno del 2013 quando, presso il Centre Civic Cotxeres Borrel di Barcelona, hanno registrato i nove brani tradizionali che compongono “Maijn”, il loro disco di debutto. Si tratta di un disco dal sound elegante e pieno di fascino, che sin dal primo ascolto cattura l’ascoltatore per quel riuscito connubio tra le strutture melodiche antiche, e le rielaborazioni moderne in cui giganteggia il piano di Angelo Conto e la voce di Alessandra Patrucco. Sono storie di donne e di uomini, di amori, passioni, affetti, passate da bocca ad orecchio, dalle voci dei protagonisti alle nostre, ma che in queste riletture operate dai Dindùn si svelano in tutto il mistero che caratterizza il divenire costante della tradizione popolare. Se l’iniziale “La Bionda Di Voghera” si svela in tutta la sua bellezza minimale, la successiva il famoso scioglilingua “Il Mio Castello” è riscritto letteralmente ed in modo quasi geniale nella melodia. “Majin (Lutto Leggero)” e “Cucù” vedono protagonista assoluta la voce della Patrucco, autrice di due prove vocali magistrali, incorniciate entrambe da arrangiamenti tenui, eterei, e allo stesso tempo densi di fascino. Si approda in territori quasi jazz con “La Soca” con il suo sublime interplay tra pianoforte e flauti, mentre “La Crava l’à Mangià ‘L Muri” ci riporta verso gli stilemi musicali tipici della tradizione piemontesi. A completare il disco sono il medley “Tuca Cicìn/Fa La Nana”, “’L Me Marì” e “Pero (Timidezza)” che compongono un trittico tutto da ascoltare per comprendere a fondo come “Majin” sia una delle sorprese più interessanti di quest’anno. Insomma perdersi per strada questo disco sarebbe un grave errore, e non solo perché rilegge in modo sorprendentemente originale la tradizione musicale piemontese, ma anche per la cura e la passione che hanno animato la sua realizzazione.
Premio Città di Loano, tradizione e avanguardia si incontrano
Alfredo Sgarlato

www.albengacorsara.it
Terza giornata per la decima edizione del Premio Nazionale per la Musica Tradizionale. Ieri sera i confini della tradizione si sono allargati oltre i limiti dei generi musicali, grazie all’ esibizione dei Din Dun, classificati quarti col nuovo disco “Majin”. Attorno alla straordinaria tecnica vocale di Alessandra Patrucco il pianoforte preparato di Angelo Conto e la ghironda elettrificata da Francesco Busso tessono trame sonore che partono da melodie o testi raccolti sul campo. La Patrucco ha una preparazione che le consente di interpretare la musica popolare così come il jazz o l’avanguardia: improvvisa sulle melodie portandosi sulle tonalità più acute, eppure non sembra mai sforzarsi. Sa, come fanno i musicisti più grandi, nascondere la sua tecnica prodigiosa mettendola al servizio dell’espressività. Accanto a lei il pianista Angelo Conto sfrutta tutte le possibilità del suo strumento, dal fraseggio minimale al ritmo percussivo, al controcanto più dolce, anche sfregando le corde dello strumento. La ghironda di Francesco Busso ricama come un violino o batte come un contrabbasso. Non siamo distanti dal lavoro di una gigante come Meredith Monk; gli integralisti per cui tradizione è ripetere alla lettera antiche mazurche avranno storto il naso, ma sono esibizioni come questa dei Din Dun o negli anni scorsi quelle dei Mascarimirì o dell’Orchestra Bailam a fare del Premio Città di Loano un festival tra i migliori d’Italia. Per via della pioggia la serata si è tenuta al chiuso della biblioteca, ma forse non è stato un male perché l’atmosfera raccolta ha giovato nel creare pathos e complicità tra musicisti e pubblico, che ha applaudito fragorosamente i tre magnifici musicisti.
Marco Maiocco
www.discoclub65.it
Non fatevi “ingannare” dalla copertina (per così dire) montanara di questo lavoro, che, data la provenienza di un paio dei componenti il Din Dùn Trio, potrebbe richiamare immediatamente gli elevati e antichi pascoli che incoronano e imperlano le sommità delle “nostre” misteriose valli occitane, o anche (forse più propriamente) l’estesa pianura piemontese, che d’inverno raccoglie e accoglie le mandrie che l’alta montagna per forza di cose respinge. Qui non siamo di fronte a un semplice disco di matrice folklorica o popolare (del resto non ci sarebbe niente di male, ovviamente), e nemmeno siamo alla prese con una delle tante e possibili, spesso entusiasmanti, mediazioni popular del ricco e profondo bagaglio della tradizione. Il piemontese Din Dùn trio ripropone (certo) materiale tratto dal vasto repertorio popolare del Piemonte, estrapolato dalle storiche ricerche etnomusicologiche di studiosi seri come Costantino Nigra, Leone Sinigaglia e Giuseppe Ferraro, ma in una chiave decisamente innovativa, inusuale se non altro, contemporanea, sperimentale, a tratti davvero geniale, colta, intrisa del fuoco sacro della ricerca. Angelo Conto (pianoforte), Alessandra Patrucco (voce) e il catalano Marc Egea (ghironda e flauti) si muovono come funamboli e con tutta la positiva tensione che questo comporta, pur esprimendosi con leggerezza, su un’aerea e impervia cresta sospesa tra l’accademia, anche quella più libera e “irriverente”, la narrazione e la formulaicità popolare, e lo scavo jazzistico, quello dedito soprattutto alla ricerca di un risultato sonoro, di un puro e personale suono (progressivamente disvelato, demiurgicamente controllato), e al tuffo abbandonato e vorticoso in un’improvvisazione imprevedibile e radicale (anche se in questo senso si sarebbe potuto osare di più). Tutta questa ricchezza culturale ed espressiva, questa complessità e consapevolezza linguistica, vengono restituite con grande immediatezza, attraverso una musica suggestiva, emozionante, elegante, molto piacevole, anche rilassante, che in nessun momento, e senza indulgere nella condiscendenza, perde di vista l’umanità, l’autenticità, la tenerezza e la melodia del canto popolare, da cui (in questo caso) scaturisce. Straordinaria la voce di Alessandra Patrucco, flautata, morbida, malleabile, evocativa, drammatica, dall’ampio registro estetico; sorprendente l’uso della ghironda da parte di Marc Egea, capace di prodursi in complicati soli (come suonasse una viola o un qualche strumento etnico a corda) su uno strumento “diabolico”, solitamente ingestibile, poco intonabile, e in genere “semplicemente” adatto a produrre una sorta di magico, riverberante, “basso continuo”, o forse (nel caso della ghironda) sarebbe meglio dire bordone armonico; sapiente la conduzione al pianoforte di Angelo Conto, musicista raffinato, dalle ampie vedute, in profondo equilibrio fra più linguaggi, sulla cui guida esperta si poggia l’intero progetto. Coraggiosi.
Interviste:
Martin Cervelli
Musica e Disincanti
"Majin", la tradizione piemontese dei DinDùn
Li abbiamo visti esibirsi in occasione della decima edizione del Premio Città di Loano per la musica tradizionale italiana. Nella raccolta e calda sala della biblioteca loro, i DinDùn, hanno presentato le canzoni di "Majin", album che a sorpresa si classificato al quarto posto nella classifica dei dischi del 2013 più votati dalla giuria del Premio. Un riconoscimento inatteso che ha premiato la qualità e soprattutto la capacità di esplorazione e innovazione di questo trio piemontese che ha ampliato i confini della tradizione intrecciando più generi musicali. I DinDùn sono partiti dai canti della tradizione piemontese raccolti sul campo da Costantino Nigra, Leone Sinigaglia e Giuseppe Ferraro e li hanno colorati con tinte che posso essere rintracciate facilmente nel jazz e nell'avanguardia. Un progetto coraggioso che ha trovato la giusta espressione nella voce di Alessandra Patrucco, dotata di una ottima tecnica e capace di coprire senza cedimenti un'ampia estensione vocale, nel pianoforte di Angelo Conto, utilizzato in tutte le sue caratteristiche espressive, e nella ghironda elettrificata di Francesco Busso che nei concerti di quest'estate ha preso il posto di Marc Egea, presente invece sul disco. Questo disco è una piacevolissima sorpresa che ha saputo ridare freschezza a canti del patrimonio storico e culturale piemontese senza cadere nel puro revival. E così anche melodie semplici e per certi versi banali, come può essere quella conosciutissima de "Il mio castello", hanno trovato nuova collocazione e nuovo slancio. Con Alessandra Patrucco e Angelo Conto, in questa intervista, abbiamo esplorato "Majin" e parlato di musica tradizionale.

Prima di parlare del disco, mi piacerebbe che uno di voi raccontasse il vostro approccio alla musica popolare...

Conto: «Il mio approccio alla musica popolare è lo stesso rispetto a qualunque altra musica alla quale mi avvicino. Cerco di delineare i contorni, le linee generali di quel mondo sonoro, di quel linguaggio, di quel contesto sociale e possibilmente di andare a fondo in alcuni aspetti. Su queste basi, suono, arrangio ed interpreto secondo il mio gusto e la mia sensibilità, adattate però al caso specifico. Mi spiego. Per la musica popolare piemontese non mi sono sentito di utilizzare armonie elaborate, mi sembrava di togliere un po' di quella essenzialità che caratterizza questa musica. In altri casi invece mi è successo di arrangiare musiche in maniera molto più incisiva, soprattutto armonicamente, introducendo degli elementi che non sono propri di quel linguaggio. Questo non mi è venuto da farlo nel caso della musica piemontese, e a dire il vero, finora non ci avevo pensato».

"Majin" si è piazzato al quarto posto nella classifica degli album del 2013 più votati dalla giuria del Premio nazionale Città di Loano per la musica tradizionale. Un risultato per molti inaspettato e per voi?

Conto: «Senz'altro anche per me, dal momento che è un Premio importante al quale concorrono musicisti esperti e conosciuti. Oltretutto il nostro lavoro è autoprodotto e autopromosso, quindi credo che sia la conferma del fatto che stiamo percorrendo una buona strada».
Patrucco: «Anche per me è stato un risultato del tutto inaspettato».

Qual è il filo conduttore di questo progetto?

Patrucco: «Il suono delle campane del paese e il suono delle voci dei vecchi - siccome ero piccola mi sembravano tutti vecchi - che mi raccontavano delle storie, di guerra o di lavoro in campagna, oppure dicevano cose che non capivo ma mi piaceva lo stesso starli ad ascoltare, era una musica bellissima il suono del dialetto. Alle volte a noi bambini gridavano dietro se giocavamo a pallone contro i muri delle case, che erano quattro in tutto sulla collina di Rolasco frazione di Casale Monferrato, ed era bello anche quello, non ci facevano paura e non so perché ma veniva da ridere un po' a tutti. Mi è venuta voglia di interpretare queste canzoni quando le ho sentite cantare da voci così, voci che non ci sono più».
Conto: «I canti, le storie che raccontano, che sono immagini, "cortometraggi" che parlano di molti tratti umani belli, interessanti e, a volte, commoventi. Dal punto di vista musicale, direi, il linguaggio che utilizziamo, che credo contribuisca a dare unitarietà al lavoro».

A Loano, complici le condizioni atmosferiche non proprio favorevoli, siete stati costretti ad esibirvi in uno spazio più raccolto e intimo rispetto a quello previsto. Come avete vissuto la serata e cosa avete portato a casa dai giorni trascorsi in Riviera?

Conto: «La pioggia, che poi quella sera non è caduta, è stata una coincidenza fortunata. La sua incombenza ha fatto sì che il concerto si svolgesse al chiuso e, nonostante il caldo, sono sicuro che la scelta abbia giovato a noi e alla musica, come molti ascoltatori poi ci hanno riferito. Ho portato a casa intanto un po' di aria ligure, un po' di profumo di mare che per me che vivo nell'interno è sempre una bella cosa, e poi la voglia di lavorare su questa musica, di suonarla e di rendere il progetto sempre più solido».

Il vostro approccio alla musica tradizionale è fortunatamente molto distante dal puro revival. Come vi è venuta l'idea di mischiare avanguardia, jazz e tradizione?

Conto: «È semplicemente il frutto di molteplici interessi. È il risultato delle strade percorse e delle esperienze fatte, ciascuna delle quali iniziata tempo fa e magari per motivi differenti, alcune volte per curiosità personale, altre volte su commissione o per l'incontro e la collaborazione con alcuni musicisti e che ad un certo punto, inevitabilmente, noi lasciamo che si mescolino, anziché tenere ciascuna dentro a compartimenti stagni, come farebbe un custode dell'ortodossia e della "purezza" dei linguaggi».
Patrucco: «A me non è venuta un'idea, direi che i canti hanno trovato me. Quando ho provato a cantarli ero piuttosto intimorita, poi ho preso confidenza cantandoli e ricantandoli a voce sola, sentendo ogni volta qualcosa in più e ho lasciato che le melodie si sciogliessero bene nel mio corpo, così a poco a poco anche le parole hanno cominciato a risuonare. Quando canto, canto così, con dentro tutta la musica che ho amato e che amo senza pensare a questo o a quel genere».

A tratti sembra che le canzoni raccolte da Costantino Nigra, Leone Sinigaglia, Giuseppe Ferraro e da voi riproposte siano state utilizzate come una tela bianca da colorare con grande fantasia. Sbaglio di molto?

Conto: «È una bella immagine che trovo appropriata. Io vedo però una tela non bianca ma che già contiene una traccia e dei colori».
Patrucco: «Qualsiasi canzone in un certo senso può essere una tela bianca da colorare e i colori mi piacciono molto. Ma non è mai completamente bianca, ci sono i colori di chi la canzone l'ha creata e su cui stendere i miei, come con gli acquerelli, velatura dopo velatura».

Scelta che ha convinto la maggioranza della critica e del pubblico. Dall'altro lato gli integralisti della tradizione potrebbero però storcere il naso di fronte a certe vostre interpretazioni a tratti cameristiche. Cosa ne pensate?

Conto: «Certo gli integralisti, di qualunque genere, di solito storcono il naso quando ci si allontana un po' troppo dal canone, questo è inevitabile. Ciò che però mi rassicura molto sul nostro lavoro sono i pareri positivi espressi dalla maggior parte dei musicisti di musica popolare che conosco, che senz'altro non sono degli integralisti, va detto, ma anche i più vicini alla tradizione hanno apprezzato la nostra musica e il nostro modo di trattare la musica popolare».
Patrucco: «È musica fatta di tanta altra musica senza pregiudizi estetici o pretese filologiche, quel che sentiamo suoniamo e cerchiamo di suonare e sentire meglio che possiamo».

Come sono stati scelti i brani e quale lavoro è stato fatto per adattarli alla vostra musica?

Patrucco: «In un primo tempo, più che scelti i brani li ho incontrati poco a poco facendo altri lavori, per esempio per il teatro. Alcune tematiche dei testi delle canzoni sono state funzionali agli spettacoli ma alle volte sono state le canzoni stesse a far virare gli spettacoli in questa o quella direzione. Per lo più mi sono interessata a storie di persone, spaccati di vita quotidiana, come quella di Pero, uomo timido che va a trovare la sua amata e che non osa neanche entrare in casa sua. Oppure la storia della bionda di Voghera: questa canzone l'ho imparato andando in giro d'estate per i campi col mio cane e immaginando la protagonista che, proprio come me, si sedeva all'ombra per il caldo e fantasticava dell'incontro con il bel giovane. Anche i paesaggi mi commuovono; per esempio in "Majin" e in "La soca" c’è la collina con dietro la montagna che è il paesaggio che ho visto dalle finestre ovunque abbia abitato in Piemonte. Un paesaggio che non mi stanco mai di guardare. Poi ogni canzone volendo è un film, ci puoi mettere i tuoi attori, i tuoi luoghi, lasciare che siano gli stessi ogni volta o cambiarli, io veramente mi affeziono agli stessi, col tempo mi sembra quasi di conoscerli… In un secondo momento con il trio abbiamo scelto quelle che venivano meglio, anzi forse sono le canzoni che hanno scelto di essere suonate. E siamo noi che ci siamo adattati ad esse e non viceversa, voglio dire che il lavoro più grande è stato quello di togliere, semplificare, lasciare spazio e mettere in luce quel che già c'era perché c'era già tutto».

Avete compiuto anche ricerche sul campo o vi siete affidati al materiale esistente?

Patrucco: «Tutte e due le cose. Le ricerche sul campo sono iniziate nel 2006 in occasione del primo disco "Varda la luna", registrato con il gruppo Sasà. A quel tempo ho avuto la fortuna di collaborare con Franco Castelli, etnomusicologo e ricercatore dell’ISRAL di Alessandria, collaborazione che è continuata fino ad oggi. Grazie a lui ho conosciuto testimoni e portatori di cultura orale dell’alessandrino che mi hanno trasmesso conoscenze, musica e canti, ho avuto l'opportunità di raccogliere materiale nuovo e già esistente e di rielaborarlo sotto la guida della sua esperienza insieme alla mia sensibilità. Questo è in parte accaduto anche per il disco di DinDùn. Una bellissima esperienza che ha dato la possibilità al mio lavoro di crescere e continua a farlo».

Secondo voi è possibile trasmettere alle nuove generazioni l'amore per la musica tradizionale?

Conto: «Sì certo, secondo me è possibile trasmettere agli altri l'amore e la passione per le cose che si fanno, indipendentemente dall'età e da fattori generazionali. Ho l'impressione che però si tratti di fenomeni che riguardano ciascun individuo, più che le categorie come per esempio "i giovani" che, come tutti, sono soggetti, purtroppo, a una massiccia dose di propaganda a favore di cose che con la musica e con l'amore non hanno molto a che vedere».
Patrucco: «Penso che sarebbe bello poter suscitare amore per la musica in generale. Sarebbe bellissimo se anche la musica tradizionale emozionasse oggi come nel momento in cui a qualcuno, in un tempo lontano, è venuta la fortunata urgenza di inventarsi una canzone. Con cura e con amore è possibile che si possa suscitare il desiderio di provare a fare lo stesso. La fortuna è anche che quel canto sia sopravvissuto fino ad oggi e quando questo viene reinterpretato è come se si instaurasse un dialogo tra persone che non si sono mai conosciute, che sentono in momenti diversi e lontani emozioni che fanno ridere o piangere, e tutte quelle altre meravigliose sfumature che stanno tra i due opposti».

I canti della tradizione sono tanti, ci possiamo aspettare un secondo capitolo targato DinDùn?

Conto: «Spero in una lunga serie di capitoli dei DinDùn, ma ancora non ho chiaro quali potrebbero essere i titoli né i contenuti neanche del prossimo. Staremo a vedere».
Patrucco: «Sì, ci sono già alcuni canti che mi stanno girando intorno come "Cantè bergera", "Il potere del canto", "Leva su bela", "E mi chantu". Ma ci vorrà ancora un po' di tempo per mettere a fuoco il nuovo disco».

Concludendo, quali sono al giorno d'oggi i problemi a proporre musica tradizionale?

Conto: «Frequento relativamente da poco l'ambiente della musica tradizionale, ti posso però dire che credo esistano in generale dei problemi a proporre musica un po' al di fuori degli schemi consueti; credo sia costante nelle programmazioni la ricerca del grande nome, del musicista famoso con il quale il pubblico possa essere rassicurato di ascoltare, spesso, la stessa musica. Un po' "stessa spiaggia, stesso mare", che alla musica secondo me non fa un granché bene. Una nostra caratteristica, con la quale dovremo fare i conti, è che proponiamo una musica che è tradizionale ma non da ballo, è soprattutto una musica da ascolto, caratterizzata dal miscelarsi di diversi ingredienti, che credo possa interessare ad un tipo di programmazione aperta, di qualunque matrice. Ti sapremo dire in futuro».
Patrucco: «I problemi nascono quando proponi qualcosa che non è facilmente riconducibile a un modello riconosciuto, insomma qualcosa di non identificabile con un termine preciso. Per esempio, una volta un signore dopo un concerto di DinDùn mi ha detto "bello, mi è piaciuto molto perché io ci ho sentito anche musica africana in queste canzoni tradizionali" e sembrava sentirsi un po' in colpa mentre lo diceva "e anche musica… e anche…" e più elencava generi e più gliene venivano in mente e alla fine esausto ha detto "sì, ma se io volessi dire a un mio amico cosa ho sentito, che musica ho ascoltato, che genere, cosa gli dico?". Ero davvero dispiaciuta di non poterlo aiutare perché naturalmente non lo sapevo e non lo so neanche adesso, così gli ho detto che se gli fosse venuta voglia forse sarebbe stato interessante inventarsene uno. Ecco, non so se ci siano problemi a proporre la musica tradizionale, la questione importante è aver la possibilità di fare musica».
© DinDùn 2015    
© DinDùn 2015